Finanziaria: peggio di quanto ci si potesse aspettare
di Alberto Madoglio
La manovra Finanziaria per il 2024, varata dal governo di destra guidato da Giorgia Meloni, fa piazza pulita in un colpo solo di tutte le promesse elettorali che avevano consentito alla coalizione di vincere le elezioni dell’autunno del 2022. Non solo, viene cancellata ogni illusione di tagliare i ponti con le politiche sociali e fiscali di austerità, portata avanti da tutti gli esecutivi che si sono succeduti nel Paese negli ultimi trenta anni, a partire da quella che fu la prima finanziaria lacrime e sangue del governo Amato nel 1992. Ad essa, negli ultimi giorni, si è aggiunto un decreto repressivo (Decreto Caivano) tra i più duri degli ultimi decenni [tema che approfondiremo in altri articoli, ndr].
Austerità e ancora austerità
Per pensioni, sanità, scuola, rinnovi contrattuali del pubblico impiego si prosegue con le politiche di rigore fin qui praticate. Ed è proprio sul tema delle pensioni che le promesse si sono infrante, insieme alle speranze che molti (noi certo non eravamo tra questi) avevano nutrito sul fatto che potesse essere effettuata una modifica, se non una abolizione tout court, della famigerata Legge Fornero, che dopo tre decenni di costante peggioramento del sistema pensionistico, finalmente si potesse varare una norma migliorativa per milioni di lavoratori.
Soprattutto la Lega di Salvini si è spesa in questo senso. Fin dal varo dell’ultima riforma delle pensioni, nel 2011, il leader razzista e xenofobo della Lega ha condotto una campagna propagandistica contro una riforma che aumenta esponenzialmente l’età per terminare di lavorare. Che l’opposizione fosse strumentale e demagogica lo dimostra il fatto che, dal 2011 a oggi ogni volta che la Lega è stata al governo, la suddetta legge non è stata modificata se non in minima parte.
Ciò non di meno, anche grazie alla assoluta mancanza di reale opposizione sul tema da parte della sinistra politica (Rifondazione e le varie sue figliazioni) e della Cgil, Salvini e soci sono appararsi come gli unici ad aver a cuore gli interessi dei lavoratori.
Quanto previsto in finanziaria però mette la parola fine a ogni furbizia a fini elettorali. Non solo la legge Fornero non viene abolita, ma viene addirittura inasprita, con un ulteriore aumento dell’età lavorativa e con la previsione di drastici tagli all’assegno pensionistico per chi volesse ritirarsi dal lavoro a 62 anni di età e con 41 anni di contributi, rendendo di fatto inapplicabile una tale possibilità.
Sanità e pubblico impiego al collasso
Stesso discorso per quanto riguarda la sanità pubblica. Durante le settimane e i mesi più duri della pandemia da Covid-19, nella primavera-estate 2020 e poi per i mesi a seguire, abbiamo sentito politici e commentatori dei mezzi di informazione borghese elogiare medici e infermieri che con la loro abnegazione e il loro eroismo hanno salvato migliaia di vite, evitando che il drammatico tributo di decine di migliaia di morti e milioni di contagiati fosse peggiore.
Ora quelle parole sono un ricordo del passato. Il personale sanitario continua a essere pagato in maniera del tutto insufficiente, non vengono previste assunzioni di personale medico e infermieristico e i tre miliardi di aumento previsti per il sistema sanitario non servono nemmeno per coprire, se non in minima parte, l’aumento della spesa dovuto alla crescita dell’inflazione, mentre, oltre al recupero inflattivo, servirebbero decine di miliardi per rilanciare un sistema sanitario pubblico ormai allo sbando, con reparti ospedalieri e di pronto soccorso ormai non più in grado di fornire un servizio minimamente dignitoso.
Tutto questo mentre si assiste al fiorire di servizi di pronto soccorso a pagamento anche negli ospedali pubblici, dimostrando una volta per tutte che la sanità non è più un diritto universale, per i lavoratori in primis, ma un privilegio per i pochi che possono permettersi di pagare somme ingenti per essere visitati in tempo utile dal personale medico.
Non se la passano meglio i milioni di lavoratori del pubblico impiego che nel prossimo anno non vedranno rinnovato il loro contratto di categoria scaduto da molto tempo, ma avranno solo un misero contributo a copertura di quella che in gergo tecnico si chiama vacanza contrattuale, contributo che, come nel caso del capitolo sanità, copre una minima parte della perdita del potere d’acquisto dovuta all’impennata dei prezzi, che nell’ultimo biennio ha cumulato una crescita vicina, se non superiore, al 20%.
E questo per una categoria che, lo ricordiamo, comprende circa 3 milioni di lavoratori, che dal 2011 hanno subito un blocco degli aumenti salariali per quasi dieci anni e che hanno avuto come ultimo rinnovo una cifra media di 85 euro lordi al mese.
Come se non bastasse, di fronte alle timide rimostranze sindacali riguardo la scarsità di fondi per aumentare gli stipendi, il ministro competente ha avuto l’ardire di ribattere che i soldi non sono tutto, ma che da parte sua ci sarà l’impegno a creare un ambiente di lavoro stimolante. Peccato che per quanto stimolante potrà essere, poco o nulla servirà a riempire il carrello della spesa a milioni di lavoratori. Si tratta di una vera e propria provocazione della quale, primo o poi, sarà chiamato a rispondere.
Si aggiunga a tutto questo un aumento dell’iva su alcuni beni di largo consumo, il sostanziale fallimento del cosiddetto «carrello tricolore» (l’accordo tra governo, imprese della grande distribuzione organizzata e industria alimentare che, per il solo quarto trimestre del 2023, avrebbe dovuto calmierare i prezzi dei generi alimentari) e da ultimo l’aumento tra 8 e 10% della bolletta elettrica e del gas.
Tutta questa serie di aumenti si mangeranno il misero aumento dei salari previsto dalla riduzione dei contributi previdenziali e del taglio delle imposte sui redditi. La giustificazione di questa manovra di austerità sociale è la solita che abbiamo sentito negli scorsi decenni: la necessità di tenere sotto controllo i conti pubblici, un debito pubblico che non permette politiche fiscali e sociali espansive, la recessione che si avvicina sempre più… e altre simili giustificazioni.
Si tratta di argomentazioni che, se in parte si fondano su dati reali, rimuovono le cause che le hanno create (due decenni di avanzo primario nel bilancio pubblico dovrebbero chiarire una volta per tutte che non è stata la eccessiva generosità del welfare state a mettere sotto pressione i conti dello Stato).
Inoltre valgono solo quando si tratta di imporre sacrifici ai lavoratori, mentre non vengono prese in considerazione quando si tratta di assecondare i desiderata della borghesia. Anche in questa manovra, infatti, è stata decisa una serie di agevolazioni e facilitazioni per assecondare le richieste dei padroni: decontribuzione per le assunzioni, in particolare nel settore della ristorazione, e lo stesso discorso vale nel caso in cui una azienda ricorra al lavoro straordinario, anche festivo; facilitazione nei riguardi del welfare aziendale, negli ultimi anni strumento privilegiato per consentire nuovi profitti capitalistici, in particolare per quanto riguarda il ricorso alla sanità privata e alle polizze sanitarie (anziché rafforzare la sanita pubblica, come ricordato all’inizio di quest’articolo).
Le banche ordinano, il governo obbedisce
Il caso però più eclatante, che non rientra nello specifico della manovra Finanziaria, ma che dimostra il carattere classista dell’azione del governo, è quello che riguarda la tassazione dei profitti delle banche. Negli scorsi mesi, grazie alla modifica della politica monetaria della Bce che aveva cominciato ad alzare il tasso di riferimento per i prestiti bancari, ci si è accorti che gli istituti di credito italiano hanno ottenuto enormi guadagni, senza che fossero legati a una particolare abilità nel compiere la loro attività imprenditoriale.
In estate, in preda a un delirio patriottico-populista, il duo Meloni-Salvini ha esclamato che gli istituti di credito avrebbero dovuto contribuire al benessere comune, versando alle casse dello Stato una tassa straordinaria sui profitti.
Nelle intenzioni iniziali si era parlato di un gettito extra di circa 9 miliardi. Dopo le prime potreste dei banchieri e di alleati minori del governo, Forza Italia, partito emanazione della famiglia Berlusconi, azionista di una primaria banca, l’importo di questa tassa si era drasticamente ridotto. Ulteriori modifiche hanno permesso alle banche di evitare di versare al fisco anche un solo euro relativamente a questa imposta. In casi simili si dice che la montagna ha partorito un topolino, ma nel caso di specie il topolino è diventato il pasto di famelici gatti (le banche appunto).
Per riassumere, mentre ai lavoratori si impongono le solite politiche lacrime e sangue, alla grande borghesia si concede tutto ciò che essa desidera, senza che debba nemmeno alzare troppo la voce per vedere rapidamente esaudite le sue richieste.
In questa situazione che tipo di risposta stanno organizzando le organizzazioni del movimento operaio, sindacati in primis e Cgil in particolare?
Pensiamo di non esagerare affermando che il comportamento di Landini e soci richiama le stesse dinamiche. All’inizio una presa di posizione che a parole promette fuoco e fiamme e l’avvio, finalmente, di una stagione di lotte e mobilitazioni. Col passare del tempo l’ardore barricadero si stempera, molto rapidamente, per arrivare nel nostro caso alla convocazione di scioperi territoriali (a livello provinciale) da svolgersi nel mese di novembre.
All’inizio di un percorso di mobilitazione, una giornata di sciopero convocata su tutto il territorio nazionale avrebbe mandato un segnale molto forte riguardo la consapevolezza della posta in gioco da parte dei lavoratori, con la possibilità di prolungare le azioni come avvenuto nei mesi scorsi in Francia.
Il vero scandalo non è però sulla tattica di articolazione della mobilitazione, ma il fatto che ci troviamo di fronte a quella che per le burocrazie sindacali sarà l’ennesima manifestazione fine a sé stessa, senza nessun intento di coinvolgere realmente i lavoratori e di mobilitarli in maniera permanente contro le politiche che governo e padroni impongono da anni, e di cui la finanziaria del 2024 è solo l’ultimo di una serie di attacchi infiniti.
Una mobilitazione che, nelle intenzioni di Landini, serve solo a rilanciare il suo protagonismo come interlocutore del governo: il buon risultato della prima tornata di scioperi è funzionale a questo obiettivo, un capitale politico che il segretario della Cgil userà per i propri fini politici, che in nessuno modo coincidono con quelli di milioni di lavoratori colpiti dagli effetti di una crisi economica senza fine.
Impostati in questo modo gli scioperi non otterranno nessun risultato, se non quello di fiaccare ancor di più la resistenza operaia, inculcando nella coscienza dei lavoratori che nulla si può fare per modificare un destino che appare ineluttabile.
Se l’intento delle burocrazie sindacali è questo, fare una parodia dello sciopero, relegandolo quasi a uno stanco rituale da ripetere al massimo una volta l’anno, il compito dei rivoluzionari e delle avanguardie operaie deve essere esattamente opposto. Far comprendere ai lavoratori che nulla è perduto, che la crisi del sistema economico italiano non deve per forza essere pagata da loro, e che solo le lotte e le mobilitazioni possono cambiare il corso degli eventi.
In Italia, nonostante la profondità della crisi salariale e occupazionale, non siamo ancora in presenza di lotte dell’ampiezza e radicalità che abbiamo visto in Francia all’inizio del 2023, o negli Usa le scorse settimane con la lotta che ha coinvolto decine di migliaia di lavoratori del settore automobilistico.
Tuttavia sono centinaia, se non migliaia, le lotte più o meno piccole che quotidianamente si verificano nel Paese e che non aspettano altro che qualcuno riesca a metterle in collegamento e a fornir loro una prospettiva rivoluzionaria anti capitalista. Il compito dei militanti del nostro partito è far sì che tutto questo avvenga e che le lotte che hanno incendiato le piazze di Parigi e le fabbriche di Detroit, possano incendiare le piazze di Roma, Milano, Torino, Napoli e dei vari centri industriali del Paese.