Partito di Alternativa Comunista

L'economia mondiale crolla Si profilano importanti scontri di classe

L'economia mondiale crolla

Si profilano importanti scontri di classe

 

 

 

Ronald León Núñez (*)

 

 

 

«È già evidente che siamo in una fase recessiva uguale o peggiore di quella del 2009», ha dichiarato Kristalina Georgieva, direttrice operativa del Fondo monetario internazionale (Fmi), alla fine di marzo. In realtà, l'annuncio ha solo confermato una tendenza che era all’ordine del giorno molto prima della pandemia, ma che ora è innegabile.
Il 14 aprile, un rapporto della stessa organizzazione prevedeva un calo del 3% del Pil mondiale nel 2020, il peggiore dal 1929, a seguito di quella che chiamano la «grande paralisi» economica (grande blocco) conseguente alle quarantene più o meno severe emanate dai vari governi per contenere o rallentare l'escalation di contagi dal nuovo coronavirus.
In effetti, le previsioni si sono ribaltate di 180 gradi in meno di tre mesi. Alla fine del 2019, il Fmi aveva stimato una crescita globale del Pil del 3,4%. Pertanto, questa nuova previsione comporta un indietreggiamento complessivo di oltre sei punti. Un fatto senza precedenti nella storia recente, «peggio che nel 2008 e nel 2009», secondo il rapporto del Panorama Económico Mundial. Ciò che vi è di certo è che il Fmi paragona gli effetti della pandemia con le conseguenze di una guerra, ma su scala globale. Secondo i suoi calcoli, tra il 2020 e il 2021, il Pil mondiale perderà 9000 miliardi di dollari. La prospettiva è davvero inquietante.
L’imperialismo egemone, gli Stati Uniti, subirebbe una riduzione del 5,6% del suo Pil. La situazione è critica. Gli Usa non sono solo nell'epicentro della pandemia, ma gli stessi effetti della recessione bussano sempre di più alla loro porta: nell'ultimo mese, più di 22 milioni di americani hanno fatto domanda per ottenere il sussidio di disoccupazione. D'altra parte, il 73% degli americani assicura che il suo reddito è diminuito negli ultimi mesi. La rielezione di Trump, che sembrava probabile a causa di alcuni indicatori economici, è ora messa in discussione.
La Cina crescerebbe solo dell'1,2%, una cifra talmente piccola per gli standard cinesi che in pratica equivarrebbe a una recessione. I «paesi sviluppati», sempre secondo il Fmi, calerebbero del 6,1%. L'Eurozona perderebbe il 7,5% del Pil complessivamente, ma, al suo interno, l'Italia e lo Stato spagnolo subirebbero una caduta rispettivamente del 9,1% e dell'8%. L'economia greca, nel frattempo, crollerebbe del 10%.
L'America Latina registrerebbe un calo del 5,2% del Pil. Se ci concentriamo sulle sue due principali economie, il Brasile calerebbe del 5,3% e il Messico subirebbe un calo del 6,6% del suo Pil. Entrambi i paesi, secondo stime «ottimistiche», recupererebbero solo nel 2023 ciò che sta scomparendo con questa crisi accentuata da Covid-19.
Ulteriori dati indicano che il commercio mondiale scenderebbe dell'11% nel 2020. La produzione industriale crollerebbe del 10,2%.
Ovviamente, non è possibile esser certi che questo cupo scenario si materializzerà come previsto. Prima di tutto, perché il Fmi e altre organizzazioni imperialiste fanno previsioni che non sono necessariamente confermate e sono in gran parte al servizio della speculazione. Proprio a partire da questa constatazione, si deve dunque ritenere che la situazione attuale potrebbe essere diversa, ma è un dato di fatto che l'economia mondiale sta crollando. Questa è una verità difficile da mettere in discussione a questo punto. La recessione prevista dagli economisti dell'imperialismo potrebbe non solo avere quella dimensione «catastrofica», ma potrebbe essere addirittura peggiore. In altre parole, è probabile che le cose andranno peggio e non meglio delle previsioni del Fmi.
A partire da questa premessa, tra le domande più importanti da farsi ci sono come e quando avverrà la ripresa. Il Fmi, la Bid (Banca Interamericana per lo Sviluppo), la Banca Mondiale e altre istituzioni affermano che la ripresa sarebbe «rapida», con un effetto di rimbalzo che inizierebbe già nel 2021. Stanno scommettendo su una curva a «V», cioè una caduta e una ripresa accentuate e accelerate. Il Fmi, ad esempio, prevede che il Pil globale aumenterebbe «solo in parte» del 5,8% l'anno prossimo, se le previsioni di una fine della pandemia nella seconda metà del 2020 saranno soddisfatte e se le misure che propongono, le loro famose «ricette», venissero applicate. Altri organismi puntano nella stessa direzione.
Possiamo a tal punto trarre le prime due conclusioni: 1) l'economia mondiale entrerà in una brutale recessione, aprendo anche la possibilità di una curva a «L», cioè un forte declino e un lungo periodo di depressione; 2) una volta contenuta la pandemia – cosa che la borghesia internazionale presume avverrà velocemente- il peso della crisi, qualunque sia la sua dimensione, cercherà di essere scaricato - come già accade - sulle spalle della classe lavoratrice.
È importante insistere sul fatto che il nuovo coronavirus è stato solo il fattore scatenante della futura recessione. La pandemia ha colpito un'economia globale che aveva mostrato segni di debolezza; ha aggredito un organismo che aveva patologie pregresse: i mali e le contraddizioni del capitalismo stesso. La vera peste non è il Covid-19 ma il sistema borghese di produzione e organizzazione sociale. È questo sistema che ci conduce, ancora una volta, a un periodo più o meno prolungato di recessione - forse una depressione - che farà sembrare il 2008 uno scherzo.
Il fatto che gli Stati Uniti, la nazione più potente del mondo, siano l'epicentro della pandemia svela inequivocabilmente l'incapacità del capitalismo di garantire la sopravvivenza dell'umanità di fronte a crisi (annunciate) di questa portata. L'imperialismo europeo non è molto indietro: in poche settimane i suoi sistemi sanitari sono stati completamente travolti dall'avanzata del Covid-19. La mercificazione della salute - come ogni altra cosa nel capitalismo - sta mettendo a dura prova le vite, principalmente tra i settori più poveri, della classe lavoratrice.
Il caso degli Stati Uniti è forse quello che meglio illustra quest'aspetto: senza avere un adeguato sistema sanitario pubblico, la patologia si è nutrita di neri, latini e lavoratori irregolari, cioè, in breve, di milioni di persone che non possono permettersi un'assicurazione sanitaria privata. Nella sola New York, il 62% dei morti è nero o latino.
Molte delle assicurazioni sanitarie sono «benefits» che le aziende concedono ai propri dipendenti. Quindi, se si perde il lavoro, quasi sicuramente si perderà anche la copertura sanitaria. Pertanto, i milioni di nuovi disoccupati esercitano una pressione ancora maggiore su un sistema sanitario che è esso stesso in terapia intensiva. E questo senza contare gli oltre dieci milioni di immigrati privi di documenti e altri settori che sono completamente ai margini dell'economia e della società degli Stati Uniti. Le fosse comuni di Hart Island, nel distretto del Bronx di New York City, rivelano il volto crudele del capitalismo «più sviluppato e democratico» del mondo. Il «sogno americano» è finito.
Ma il modo in cui la pandemia colpisce i paesi ricchi non può farci perdere di vista il fatto che i paesi più colpiti sono e saranno i paesi poveri. Sia a causa della crisi sanitaria che della sua controparte, la recessione economica.

 

La crisi in America Latina

Nel caso dell'America Latina, possiamo confrontare le previsioni del Fmi con quelle di altre organizzazioni. La Banca mondiale, ad esempio, prevede un calo del 4,6% del Pil per l'America Latina, il più grande dal momento che il Pil viene registrato. Il dato supera le proiezioni della Bid, che stima un calo tra l'1,8% e il 5,5%. Se confermati, questi numeri supererebbero nettamente la contrazione del 2,5% del 1983, associata alla crisi del debito in America Latina, che innescò quello che in seguito sarebbe stato chiamato il «decennio perduto». Lo stesso si può dire della contrazione avvenuta nel 2009, quando l'economia latino-americana è crollata solo» dell'1,9%.
Eric Parrado, capo economista della Bid, ha dichiarato che «la regione subirà uno shock di proporzioni storiche». A seconda dell'impatto economico degli Stati Uniti e della Cina (i due maggiori partner commerciali dei Paesi latinoamericani), lo scenario più estremo previsto per il periodo 2020-2022 è un crollo tra il -5,5% e il -14,4%. Soprattutto perché l'accelerazione della crisi economica causata dalla pandemia si aggiunge a un mercato del lavoro irregolare di circa il 60%, al calo dei prezzi delle materie prime e alla fuga di capitali di tutta l'America Latina. Solo tra febbraio e marzo, circa 53 miliardi di dollari sono fuggiti da quei paesi, più del doppio della fuga di capitali da quei mercati immediatamente dopo la crisi del 2008, quando vi fu una fuga di 26,7 miliardi di dollari. Il Brasile, la principale economia latino-americana, non è solo l'epicentro della pandemia nella regione, ma anche della fuga di capitali: oltre 12 miliardi di dollari in due mesi. Se alla fuga di capitali si aggiunge il calo del 37% dei prezzi delle materie prime dall'inizio della crisi, la situazione peggiora. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, i cosiddetti «paesi in via di sviluppo» nel loro insieme (esclusa la Cina) perderanno quasi 800 miliardi di dollari in termini di proventi derivanti dalle esportazioni. Tra questi paesi vi sono quelli cosiddetti «emergenti», che, secondo la stessa fonte, avranno bisogno di oltre 2500 miliardi di dollari per riprendersi dal disastro.  Le raccomandazioni dell'agenzia si concentrano sull'uso delle risorse statali - non sul mercato, ovviamente - per salvare le aziende dalla bancarotta e aumentare il peso delle ben note misure compensative e di welfare, definite «programmi di trasferimento».

 

Crisi sociale e lotta di classe

La recessione economica sta facendo emergere terribili conseguenze sociali. La precarietà delle condizioni di lavoro e la disoccupazione stanno crescendo in tutto il mondo, un dramma che va di pari passo con l'aumento della miseria e della fame. In alcuni paesi, la combinazione di Covid-19 e recessione creerà crisi umanitarie in piena regola.
L'effetto sull'occupazione è e sarà «devastante», secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). All'inizio della crisi sanitaria, questa agenzia ha stimato la distruzione di 25 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo, più che durante la crisi economica del 2008. Ma un recente rapporto prevede che «195 milioni di posti di lavoro andranno persi in soli 3 mesi», con riferimento al periodo tra aprile e giugno di quest'anno. Considerando sia i licenziamenti che la riduzione delle ore lavorate, l'Oil stima che l'America Latina e i Caraibi perderanno non meno di 14 milioni di posti di lavoro, mentre l'America centrale ne vedrà distrutti 3 milioni. Il termine di paragone ha smesso di essere il 2008 e diviene il 1929. I tecnici dell'Oil sottolineano che questa è «la crisi più grave dalla seconda guerra mondiale: le perdite di posti di lavoro stanno crescendo rapidamente in tutto il mondo». Solo negli Stati Uniti, si potrebbero perdere 37 milioni di posti di lavoro. Secondo l’Oxfam, le conseguenze economiche della pandemia di coronavirus potrebbero trascinare nella povertà altre 500 milioni di persone. In breve, tra il 6% e l'8% della popolazione mondiale potrebbe sprofondare in una condizione di povertà, soprattutto nei cosiddetti «paesi in via di sviluppo».
Queste stime si basano su dati precedenti alla pandemia. Solo un disoccupato su quattro nel mondo ha accesso all’indennità di disoccupazione. Due miliardi di persone lavorano nel settore irregolare, senza accesso alle assenze per malattia, in particolare nei paesi in via di sviluppo, dove oltre il 60% dei posti di lavoro è di questo tipo, rispetto al 18% nei paesi ricchi. Esistono paesi con tali condizioni di lavoro precarie, come la Bolivia o l'India, dove il lavoro irregolare raggiunge rispettivamente l'80 e il 90%.
In questo modo, l'impatto di Covid-19 sarà più duro nei paesi poveri che nei paesi ricchi. Una prima spiegazione di ciò è il volume degli investimenti nella salute: mentre uno stato imperialista come la Germania stanzia in media 5.986 $ pro capite all'anno, paesi come Haiti assegnano $ 37 pro capite all'anno.
Nei paesi poveri, coloro che soffriranno di più saranno i settori più sfruttati e oppressi della classe operaia delle regioni meno sviluppate. Le donne, ad esempio, che sono in prima linea nella lotta contro il nuovo coronavirus, hanno maggiori probabilità di essere le più svantaggiate economicamente. Costituiscono il 70% della forza lavoro globale nel settore sanitario, inoltre  svolgono il 75% del lavoro di assistenza non retribuito che, comprende la cura di bambini, malati e anziani. A loro volta, le donne hanno maggiori probabilità di avere un lavoro precario e poco retribuito, che a sua volta è il più minacciato dalla crisi. E questo senza contare l'aumento della violenza maschile causato dalle misure di confinamento. Lo stesso si può dire di neri, indigeni, immigrati, ecc.
La principale incognita nello scenario attuale sono le previsioni «lugubri» dell'economia mondiale su quella che sarà la risposta nel campo della lotta di classe. È noto che la crisi economica non implica necessariamente esplosioni o rivoluzioni sociali. Non vi è una relazione meccanica. Inoltre, la disoccupazione, la disaggregazione o la demoralizzazione di ampi settori della classe operaia e dei suoi alleati, potrebbero creare le condizioni per produrre un riflusso, cioè uno scenario contrario all'esplosione dei processi rivoluzionari. Nulla può essere escluso a questo punto, e neppure esiste una ricetta per ogni paese. La lotta di classe è un processo dialettico e avrà l'ultima parola.
Però, se ci basiamo sulle proteste (come i cacerolazos contro vari governi) e gli scioperi in settori ancora attivi, è possibile immaginare una prospettiva di risposta combattiva agli effetti della crisi e agli attacchi che verranno o che sono già in corso. Non vi sono ragioni serie per escludere che i processi critici della lotta di classe prima della pandemia - Cile, Ecuador, Hong Kong, Francia, Algeria, Libano, Iraq, ecc. - riprenderanno con rinnovata forza quando le condizioni lo consentiranno. Inoltre, potrebbero aggiungersi altri paesi che sono stati gravemente colpiti sia dalla pandemia che dall'incuria di governi, come l'Italia, la Spagna o gli stessi Stati Uniti. Perché no?
In questo contesto, noi rivoluzionari dobbiamo essere preparati a grandi scontri. Occorre prepararsi teoricamente, programmaticamente, politicamente e organizzativamente per queste prove decisive.

Il quesito cocente è quello relativo al programma con cui intervenire nelle proteste e nelle rivoluzioni mondiali che seguiranno la pandemia. Per noi, può esservi solo un programma operaio, rivoluzionario e socialista. Un programma anticapitalista che, a causa della doppia crisi sanitaria ed economica, può essere meglio compreso da ampi settori di attivisti e persino dalle masse popolari, che deve non solo fungere da struttura difensiva contro gli attacchi presenti e futuri, ma anche come guida a un'offensiva contro quella minoranza della società che conduce il mondo verso la barbarie.
Non c'è via di mezzo: o loro o noi. Nello stesso tempo in cui combattiamo contro la diffusione del nuovo coronavirus, dovremo combattere contro quel parassita rappresentato dalla classe capitalistica. Più che mai dovremo spiegare, tutte le volte che è necessario, che solo il socialismo può impedire alla borghesia internazionale di imporre la barbarie sul pianeta.
In sintesi: c'è e ci sarà da lottare per difendersi dagli attacchi della borghesia e dei suoi governi, ma non sarà abbastanza. Senza un obiettivo strategico, potremmo persino vincere alcune battaglie, ma continueremo a essere disorientati in questa guerra sociale. Questo obiettivo strategico non può essere diverso da quello di affrontare ogni lotta, per quanto piccola possa essere, con la prospettiva che la classe operaia dovrà sconfiggere la borghesia, e prendere nelle sue mani il potere per costruire un nuovo tipo di Stato - uno Stato operaio basato sulla democrazia operaia - e intraprende la transizione verso il socialismo.

 

(*) dal sito della Lit-Quarta Internazionale www.litci.org

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