Partito di Alternativa Comunista

LA PRIMAVERA ARABA UN ANNO DOPO

LA PRIMAVERA ARABA

UN ANNO DOPO

 

di Valerio Torre

 

In fondo, a molti ha fatto piacere che sulle prime pagine dei quotidiani le rivoluzioni del Nord Africa e del Medio Oriente abbiano da qualche tempo lasciato il posto alla crisi economica. Da un lato, la borghesia capitalista pensava così di deviare l’attenzione di chi ha guardato alla c.d. “primavera araba” con la speranza e l’aspettativa che potesse propagarsi in Europa: in fin dei conti, è molto più tranquillizzante parlare di Merkel e Sarkozy, di Cameron e di Monti, di spread e di debiti sovrani, piuttosto che dare spazio ad un processo rivoluzionario in grado di risalire il bacino del Mediterraneo e contagiare i Paesi europei avviluppati da una crisi senza sbocco. Dall’altro lato, importanti settori della sinistra mondiale – particolarmente quelli eredi dello stalinismo, schieratisi da subito contro la rivoluzione libica e in difesa di Gheddafi e contro la rivoluzione siriana e in difesa del dittatore Assad – avevano analoghe ragioni per mettere la sordina a un processo che li inchioda alle proprie responsabilità politiche e morali di fronte al proletariato mondiale per aver preso le parti di questi sinistri personaggi, schierandosi oggettivamente dallo stesso lato della barricata dell’imperialismo, di cui i due tiranni sono stati per decenni agenti (salvo poi essere scaricati quando sono mutate le condizioni geopolitiche).
Eppure, nonostante questa cappa di silenzio, quel processo rivoluzionario, pur tra mille contraddizioni, progressi e arretramenti, è proseguito: insomma, la “vecchia talpa” ha continuato a scavare. Cercheremo dunque di dare uno sguardo d’insieme al processo rivoluzionario del Nord Africa e del Medio Oriente  attraverso l’esame di quanto accaduto (e sta accadendo) nei singoli Paesi della regione.

 

Egitto: “Thawra hatta al-nasr!”(1)

Il processo rivoluzionario in Egitto ha fornito la dimostrazione della gigantesca forza messa in campo dai giovani e dai lavoratori quando, un anno fa, hanno rovesciato Mubarak. Tuttavia, quella che, in tutta evidenza, è stata una vera e propria rivoluzione, con obiettivi democratici, è stata caratterizzata da una forte contraddizione: le masse popolari hanno per lungo tempo dopo la caduta del “faraone” nutrito illusioni nell’esercito, che, nonostante sia stato per cinquant’anni il puntello del regime, si è presentato come una forza “neutrale” durante le prime fasi della sollevazione popolare.
Ma ben presto è subentrata una nuova tappa: le aspirazioni di autentica libertà e di un vero miglioramento delle condizioni di vita hanno dovuto fare i conti con il governo del Paese, che i militari del Supremo Consiglio delle Forze armate (2) non hanno voluto realmente abbandonare continuando a gestire il potere: in queste condizioni, l’economia egiziana non poteva non essere retta secondo i criteri del precedente governo e, così, peggiorare. Nel terzo trimestre del 2011, l’indice di disoccupazione è salito all’11,9% dall’8,9% dell’anno precedente.
Ciò ha indotto i lavoratori e i giovani a mobilitarsi ancora (3) e a scontrarsi questa volta col potere militare. In tal modo, la rivoluzione egiziana ha conosciuto una nuova avanzata, nonostante la feroce repressione messa in campo dall’esercito. Al grido di “Bisogna completare la rivoluzione!”, migliaia di manifestanti hanno rivendicato l’uscita di scena dei militari pagando però un pesante tributo di sangue, con decine di morti e molti arrestati.
Ma la repressione non era la sola arma con cui lo Scaf ha tentato di “normalizzare” la situazione. L’altra, ben sperimentata, è stata quella di canalizzare il malcontento nell’alveo istituzionale delle elezioni.
Svoltasi in tre turni, la competizione elettorale ha visto il trionfo nella Camera Bassa del braccio politico dei Fratelli Musulmani, il partito Libertà e Giustizia, col 47% delle preferenze, seguito dal partito salafita Al Nour (24%) dai liberali di Al Wafd (7%) e da una decina di altri partiti. Nei prossimi giorni si svolgeranno le elezioni per la Camera Alta; quindi, le settimane successive saranno dedicate a scrivere una nuova Costituzione per il paese; infine, il 30 giugno prossimo si dovrebbero svolgere le presidenziali.
Questo scadenzario per la “transizione” è stato voluto e verrà diretto, in accordo con il nuovo parlamento, dalla Giunta militare, che ha posto una sorta di “opzione politica” per quando non sarà più al potere, ipotizzando di ergersi a garante della futura Costituzione.
Ma allora, con la vittoria elettorale dei partiti islamisti, il processo rivoluzionario egiziano può dirsi chiuso?
In realtà, le masse, a differenza dei partiti islamisti oggi rappresentati nel nuovo parlamento, non sono d’accordo con il percorso e l’esito profilato. Tanto è vero che la prima seduta parlamentare del dopo‑Mubarak è stata segnata da imponenti manifestazioni svoltesi fuori dell’aula della Camera Bassa, circondata dalla polizia e protetta da filo spinato (4). Mentre i Fratelli Musulmani siglavano importanti intese con l’imperialismo statunitense sulla conservazione degli accordi di pace con Israele (5) e persino i salafiti del partito Al Nour spiegavano che eventuali modifiche andrebbero negoziate con lo Stato ebraico (6), i manifestanti protestavano contro Tantawi (capo dello Scaf) che per molti egiziani è diventato il nuovo nemico. Le masse, insomma, cominciano ad avere ben chiaro qual è il ruolo dei militari e sono pronte ad affrontare una nuova fase del processo rivoluzionario.
Ciò che manca loro è una direzione conseguentemente rivoluzionaria, principale debolezza della rivoluzione, riflessa peraltro in forma distorta nell’esito elettorale così favorevole ai partiti islamisti e liberali.
È questa, ora, la primaria esigenza per il proletariato egiziano: dotarsi di quello strumento – il partito rivoluzionario – in grado di dirigere e portare vittoriosamente a termine ciò che è stato iniziato e che è attraversato dallo slogan che percorre le strade del Cairo: “Thawra hatta al-nasr!”.

 

Che accade in Tunisia?

Molto di ciò che abbiamo detto per l’Egitto vale per la Tunisia, il Paese da cui è partita la scintilla che ha incendiato il Nord Africa e il Medio Oriente.
Un anno dopo l’insurrezione popolare che ha rovesciato il dittatore ben Alì, anche qui il processo rivoluzionario è stato incanalato nell’alveo elettorale: e con gli stessi risultati dell’Egitto.
Il partito islamico moderato Ennahdha, vincitore delle elezioni del 23 ottobre scorso, avrebbe dovuto dare risposta alle domande di giustizia sociale dei tunisini. Ma, a tutt’oggi, la situazione sembra essere rimasta ferma a un anno fa, e anzi peggiorata.
Dal versante dei diritti sociali, ad esempio, vengono documentate repressioni violente delle manifestazioni e pestaggi di attivisti, mentre, per quel che concerne le aspettative per un miglioramento della qualità della vita, va registrato un forte aumento del tasso di disoccupazione con 800.000 senza lavoro in più rispetto a un anno fa.
Il fatto è che il nuovo governo non sembra avere molta fretta di migliorare le condizioni dei lavoratori e dei disoccupati tunisini, tanto che la disperazione fa ancora capolino: il 5 gennaio scorso un disoccupato si è dato fuoco nella città di Gafsa per richiamare l’attenzione di tre ministri in visita nella località. Ma, al di là di questi gesti individuali, settori della classe operaia sono in agitazione.
In varie città e regioni vengono organizzati scioperi o sit‑in: a Sousse, ad esempio, il sindacato dei laureati disoccupati (Sgd), che ha svolto un ruolo importante durante la rivoluzione, ha realizzato un’assemblea nazionale con 500 delegati in rappresentanza delle migliaia di aderenti di tutto il paese; il 15 agosto scorso, a Tunisi, si è svolta una manifestazione che ha riunito tutti gli attivisti sindacali di sinistra e a cui hanno partecipato oltre 10.000 persone rivendicando lavoro, giustizia sociale e la punizione dei responsabili del vecchio regime; a Gabès i lavoratori chimici stanno paralizzando la loro impresa da più di un mese per avere chiarezza nelle assunzioni; a Gafsa operai di una fabbrica di cavi elettrici hanno organizzato un sit-in per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato dei precari che hanno lavorato per due anni di seguito; a Béja, nel nord del Paese, la sola minaccia di sciopero dei lavoratori di un’altra impresa produttrice di cavi è bastata affinché venissero riassunti 25 operai licenziati; a Makhtar, l’intera popolazione è scesa in sciopero, erigendo barricate, per chiedere che si ponga rimedio alla povertà e alla disoccupazione. E nell’anniversario della rivoluzione migliaia di tunisini sono scesi in piazza per denunciare il tradimento della rivoluzione.
Anche in questo caso, insomma, le masse stanno facendo la loro esperienza con una direzione borghese che non rappresenta i loro interessi e non vuole approfondire il corso del processo rivoluzionario. C’è spazio, insomma, affinché la classe lavoratrice e la gioventù sentano fiducia nelle proprie forze e diano vita a una direzione proletaria indispensabile per l’azione rivoluzionaria e per lo sviluppo in senso socialista del processo che si è aperto.

 

 

Note

(1) “Rivoluzione fino alla vittoria!”: è lo slogan che risuona in Piazza Tahrir ancora oggi.

(2) Scaf, nell’abbreviazione in lingua inglese.

(3) Nel solo mese di settembre 750.000 lavoratori hanno partecipato ad almeno uno sciopero.

(4) www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/23/egitto-storica-seduta-parlamento-prima-dopo-mubarak/185923/.

(5) Il 7 dicembre 2011, Jeffrey Feltman, uno stretto collaboratore del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha dichiarato al quotidiano israeliano Yediot Ahronot: “Con i Fratelli musulmani in Egitto abbiamo raggiunto l’intesa che rispetteranno la pace con Israele” (www.blitzquotidiano.it/politica-mondiale/egitto-fratelli-musulmani-rispetteranno-pace-con-israele-1044737/). La notizia è confermata da Amr Zaki, vicesegretario generale dei Fratelli Musulmani, che, intervistato lo scorso 24 gennaio, ha chiarito: “Il cambiamento obbliga l’Occidente ad articolare nuove  politiche per le nostre future relazioni. Gli Usa comprendono il nuovo periodo ed avranno buoni rapporti con noi”, aggiungendo che gli accordi con Israele saranno sottoposti a referendum popolare… “nei prossimi 20 anni”! www.kaosenlared.net/component/k2/item/5102-hermanos-musulmanes-%E2%80%9Cegipto-someter%C3%A1-a-consulta-su-relaci%C3%B3n-con-israel%E2%80%9D.html.

(6) Emblematica l’intervista a un’emittente radiofonica israeliana del portavoce di Al Nour, Yousri Hammad, ripresa in www.kaosenlared.net/territorios/t2/internacional/item/1393-egipto-el-salafista-partido-al-nour-tiende-la-mano-a-israel.html.

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