Difendere i lavoratori!
Non c'è vittoria per gli operai senza un partito comunista
Francesco Ricci
"Non c'è vittoria, non c'è conquista, senza un grande partito comunista" si urlava anni fa nelle manifestazioni. E' una lezione amara che hanno imparato, bruciando in fabbrica, gli operai della Thyssen.
Ed è cosa di cui la borghesia è pienamente consapevole: per questo ha, da sempre, patrocinato la diluizione socialdemocratica, lo smembramento e - se possibile - la dissoluzione dei partiti operai. Così la borghesia ha accompagnato l'integrazione del Pci nel suo governo nell'immediato dopoguerra (dopo che lo stalinismo togliattiano aveva utilizzato la coraggiosa lotta dei partigiani per restaurare lo Stato liberale che perseguiva le lotte servendosi, quando necessario, anche dei vecchi arnesi fascisti); così l'ulteriore transizione dalla socialdemocrazia (Pci berlingueriano) alla sinistra liberale (Pds, Ds) è stata concepita e diretta nei salotti di De Benedetti e Scalfari (il cui giornale è nato con questa precisa missione). Anche la costituzione di un nuovo partito socialdemocratico, a partire dai quattro partiti riformisti della "cosa rossa", integrato nel governo dell'alternanza borghese, gode della simpatia di ampi settori della grande borghesia e della sua stampa. La presidenza della Camera a Fausto Bertinotti, per quanto fatto meramente simbolico, simboleggia proprio il riconoscimento di un lavoro di sistematico tradimento degli interessi operai in cui Bertinotti (gliene va dato atto) ha speso tutte le sue energie in questi anni.
Un investimento, quello borghese, che dà i suoi frutti. Se Prodi ha potuto governare finora, ostacolato soltanto dagli scontri interni al pollaio parlamentare, privo di una reale opposizione di massa nelle piazze e nei luoghi di lavoro, è appunto in virtù del lavoro instancabile delle burocrazie socialdemocratiche di quei quattro partiti (Prc in testa) e del sindacato (Cgil epifaniana - ma con l'ausilio anche della Fiom di Rinaldini).
Abbiamo elencato, raccontato, analizzato in decine di articoli su questo giornale le politiche di guerra sociale e militare del governo Prodi e lo facciamo ancora anche in questo numero che avete in mano. Non insistiamo dunque sul tema in questo articolo. Peraltro due cose sono certe ed evidenti e non richiedono grandi dimostrazioni. Primo, in tutte le sue componenti principali, la grande borghesia continua a preferire, nel quadro dell'alternanza borghese (cioè della politica per cui ci sono due forni - centrosinistra e centrodestra - che cuociono lo stesso pane), un governo di centrosinistra. E, come direbbe un parigino, pour cause: con buone ragioni. Secondo, il governo del centrosinistra ha bisogno - per bombardare con palle di cannone i lavoratori senza che abbiano la forza di reagire - dell'aiuto della socialdemocrazia e dei sindacati concertativi. A questi aiutanti di campo è affidato il compito di buttare secchi d'acqua gelata sul ferro dei cannoni, per evitare che si surriscaldino, cioè, fuor di metafora, a loro è affidato il compito di deviare e frenare le lotte per evitare che la classe operaia, surriscaldandosi, diventi pericolosa.
In definitiva, il varo di un embrione (per ora) di confederazione con i cosiddetti "stati generali della sinistra" all'inizio di dicembre ha avuto questa unica funzione: avanzare nella costruzione di un partito socialdemocratico da usare come mozzo del cannoniere, cioè del Partito Democratico veltroniano. La "dichiarazione d'intenti" de La Sinistra - l'Arcobaleno (come si fanno chiamare) potrebbe suscitare al più un sorriso. Con i suoi richiami alla "pace" (come se chi fa questa dichiarazione non sostenesse un governo impegnato in guerre in mezzo mondo), con le sue parole di sdegnoso rifiuto della precarietà (come se non ne fosse artefice il loro governo). Non è rimosso solo il comunismo o ogni riferimento, pur vago, a un'alternativa di società: vi è un balzo indietro, che cancella non solo l'odiato Novecento (e le sue rivoluzioni) ma anche l'Ottocento (e le sue rivoluzioni) per riportarci ai generici propositi di "egalité" della rivoluzione francese: o, per meglio dire, ai propositi della sua fase monarchico-costituzionale; a Mirabeau e a Lafayette - che faceva sparare sui sanculotti al Campo di Marte - non certo a Robespierre e Saint-Just e al governo della Montagna nell'Anno II. In questo senso, persino il nome "Sinistra", nato in quella rivoluzione essenzialmente (ma non solo) borghese, è usato abusivamente da questi odierni eredi dei foglianti o al più dei girondini, che avrebbero dovuto sedere a destra della Convenzione se si fossero trovati nella Grande Rivoluzione (in realtà, sia detto tra noi, Saint-Just di gente simile avrebbe voluto la testa...). Il loro riferimento non è nemmeno un pallido e indeterminato socialismo, come conferma (in cerca sempre di un'altra occasione per stupirci) Fausto Bertinotti dalla Bolivia, dove propone appunto di superare... il socialismo (1).
Si potrebbe, insomma, sorriderne, se questo progetto politico non fosse pericolosissimo e se quel testo non fosse il patto con cui, per l'ennesima volta, le burocrazie socialdemocratiche consegnano i lavoratori ai loro carnefici, se non fosse insomma scritto con il sangue degli operai della Thyssen.
Il Prc: dalla deriva alla farsa
"Il governo ha fallito" ha tuonato Bertinotti sulla stampa amica. Dunque? "Viva il governo". Questo è il paradossale significato della condanna con appello che l'ex segretario del Prc (e tuttora leader reale di quel partito) ha pronunciato. Le durissime parole contro Prodi avevano, infatti, solo lo scopo di aprire un negoziato con tutti i settori del centrosinistra (prodiani, veltroniani, ecc.) sulla legge elettorale (2). La stessa invocata "verifica" di queste settimane non ha per oggetto il programma di governo (e come potrebbe? dopo che il Prc ha sostenuto tutte le sue misure anti-operaie in questi mesi?) ma solo i meccanismi elettorali grazie ai quali la burocrazia bertinottiana spera di mettersi in salvo dalla caduta verticale di consenso e di immagine.
Altro che "governo come elemento secondario", slogan proclamato fino al giorno dell'ingresso nel sottoscala di Palazzo Chigi dai vari Russo Spena e Ferrero (e convalidato, a suo tempo, dai Turigliatto e Cannavò cantori della "svolta a sinistra" del bertinottismo movimentista). Il governo - e le sue poltrone - sono l'unica ragione del gruppo dirigente bertinottiano. Non servono analisi leniniste per comprenderlo, basta leggere la cronaca che Liberazione, impietosamente, riporta dei dibattiti della Direzione nazionale. La cronaca della Direzione di dicembre - quella che ha deciso lo spostamento a data da definire del congresso, sostituito da una "verifica" di popolo - riferiva (non scherziamo) dei lazzi con cui i dirigenti del Prc (alcuni evidentemente sbronzi) si interrompevano a vicenda, con tanto di rutti... (3). Un gruppo di parvenu, ubriacati dal lusso e dagli ori piovuti sulle loro misere carriere di burocrati di second'ordine dopo l'ingresso al governo. Come spiegava Rosa Luxemburg (ammazzata quasi novant'anni fa da un'altra schiera di burocrati socialdemocratici corrotti dal sotto-potere di governo): "L'ingresso dei socialisti in un governo borghese non è dunque, come qualcuno crede, una conquista parziale dello Stato borghese da parte dei socialisti, ma una conquista parziale del partito socialista da parte dello Stato borghese." (4)
La rete dei centristi di Sinistra Critica
Secondo i linguisti, delle attuali 5000 lingue esistenti sulla Terra almeno metà sparirà entro qualche decennio. Pare che l'unica lingua destinata a non sparire mai sia quella del centrismo.
Il "centrismo", come lo definiva Trotsky, è quell'area politica che oscilla tra riformisti e rivoluzionari. Ne sono esistiti, nella storia, vari tipi. Oggi due esempi di centrismo sono incarnati dalle due ultime scissioni del Prc: Sinistra Critica e Pcl.
Sinistra Critica, dopo aver votato (o sostenuto con lo stratagemma tecnico della "non partecipazione al voto" che al Senato equivale a un voto a favore) per un anno e mezzo in parlamento quasi tutte le misure del governo Prodi (e comunque le più importanti: a partire dalla missione in Afghanistan e in Libano, passando per i "dodici punti" di Prodi; e ciò anche quando Turigliatto era ormai stato espulso dal Prc e non vi era dunque nemmeno una presunta necessità "tattica"), ha infine deciso di uscire dal Prc, con l'assemblea tenuta agli inizi di dicembre (5).
Una scelta giusta, anche se tardiva e fatta dopo che diversi dirigenti di quest'area avevano ironizzato sulla scissione di Pc-Rol (la sinistra del Prc che ha dato vita al nostro partito, uscendo per prima da Rifondazione, nei giorni della costituzione del governo Prodi). In realtà la sola scelta possibile per chi voglia contrastare il progetto socialdemocratico che abbiamo descritto sopra: le altre aree di minoranza rimaste nel Prc, infatti, o si sono sciolte di fatto (come la minoranza più corposa, quella di Essere Comunisti, di Grassi) o aspettano invano il prossimo congresso (Falcemartello) o preparano altre scissioni, anche se talvolta verso progetti ad alto indice di opportunismo (come sarebbe una scissione incrociata dell'Ernesto di Sorini dal Prc e di Marco Rizzo dal Pdci, per confluire in una forza comune per cercare di usare la falce e martello a fini di marketing elettorale, come sembrerebbe di capire sfogliando il libro Perché ancora comunisti che Marco Rizzo gira a presentare per tutta Italia).
Una scelta giusta, dicevamo, quella di Sinistra Critica. Ma uscire dal Prc per fare cosa? Abbiamo letto con attenzione i documenti della conferenza di quest'area, a partire dal "Manifesto programmatico" che è un vero esempio da manuale dell'indecisione tipica del centrismo. Le uniche cose che si evincono con certezza, in mezzo a molte contraddizioni, sono: a) che non si vuole costruire, almeno per ora, un partito: ma piuttosto una "rete"; b) che non si vuole costruire un partito di opposizione: solo "tendenzialmente di opposizione"; c) che si guarda politicamente al primo bertinottismo e alla fase movimentista di Rifondazione come bussola; d) che non si vuole costruire nulla di "marxista", visto che si esplicita che non si considera "il marxismo l'unica teoria di liberazione a cui fare riferimento". Che sarebbe come dire, in campo scientifico, che non si considera la teoria della cellula come l'unica possibile, ma che la si vuol far convivere con la teoria della generazione spontanea; o che ci si può curare non solo con la medicina ma anche, talvolta, con l'ausilio della magia.
Non a caso, insomma, la parte propositiva (anche delle relazioni di Cannavò e Turigliatto all'assemblea) si riduce al calendario delle prossime manifestazioni dei movimenti. Partecipare alle manifestazioni, s'intende, è parte importante di un'organizzazione di lotta: ma è un po' poco per definirne i contorni.
Questo dal punto di vista qualitativo. Da quello quantitativo, Sinistra Critica ha perso qualche pezzo nella scissione (in particolare tra i dirigenti con incarichi istituzionali, nel giornale del partito, ecc.) ma soprattutto non ha ancora identificato gli altri soggetti che dovrebbero far parte di questa "rete": o meglio, quelli individuati (Cremaschi, Bernocchi, Casarini) sembrano interessati solo a un'interlocuzione ma hanno tutti altri progetti da coltivare.
In definitiva, quindi, il termine "rete" ben descrive questo progetto: fatto di buchi programmatici e organizzativi.
Un caso anomalo
Anche il Pcl ferrandiano rientra, di diritto, nell'area centrista. Ma qui - come ci è capitato altre volte di scrivere - più che le lenti dell'analisi marxista servirebbero gli occhiali spessi del dottor Freud (gli unici forse in grado di indagare un progetto che non ha alcuna base politica ma vive solo in funzione delle pulsioni egocentriche dei due leader, Ferrando e Grisolia). E' difficile infatti spiegare politicamente le girandole dei numeri con cui Ferrando sostituisce il vuoto politico del Pcl: i duemila iscritti che il giorno dopo diventano tremila (per tornare duemila in una ennesima dichiarazione, segno che per raccontare frottole è necessaria una buona memoria). Ma di queste cose si è occupato, meglio di quanto possiamo fare noi, il nostro Crisecci (6). Qui resta solo da notare che il Pcl - che a differenza di Sinistra Critica proclama la necessità di costruire un partito - pensa a un partito di fatto ispirato al menscevismo (volendo usare un paragone fin troppo nobile): cioè non di militanti d'avanguardia ma di iscritti (i documenti congressuali, significativamente, parlano di "costruire la militanza tra gli iscritti", non essendo evidentemente un pre-requisito per l'iscrizione). Un partito non facente parte di un'Internazionale in costruzione, al di là di un richiamo alla Quarta Internazionale annunciato nel simbolo (col Crqi dell'argentino Altamira si intrattengono al più relazioni diplomatiche). La traduzione di questo pasticcio menscevico, che dovrebbe servire a raggruppare numeri più elevati di militanti (basandosi nelle intenzioni sulla integrità programmatica incarnata dal leader), non attira i giovani (di cui il partito è privo, come hanno testimoniato alcuni giornalisti presenti al congresso), ma attira, in compenso, elementi assai eterogenei, accomunati solo da un confuso riferimento al "comunismo" (significativo l'episodio del canto di Bandiera Rossa con inni a Mao Tse Tung da parte di metà platea in un congresso di un partito che pur si richiama in qualche modo al trotskismo) (7).
Non metterebbe conto di parlare ancora, insomma, di questo Pcl se non fosse per l'immagine giornalistica, guadagnata grazie allo scandalo della mancata candidatura al Senato, che fa apparire come reale un gruppo che, chiunque frequenti le manifestazioni e la politica, sa essere inesistente.
Il primo anno di vita di Alternativa Comunista
Se il panorama politico è quello che abbiamo sin qui descritto, tanto più preziosa è l'esperienza del PdAC.
Senza proclami numerici né fanfare, a un anno dal nostro congresso fondativo possiamo vantare alcuni risultati importanti. La costituzione di nuove Sezioni e il rafforzamento delle vecchie; la crescita di nuovi quadri giovani (come si capisce anche solo sfogliando questo giornale o navigando nel nostro sito, fatto da militanti impegnati nelle lotte); il rafforzamento del nostro lavoro sindacale e operaio (anche con l'utilizzo di un nuovo strumento: il volantone di fabbrica). Se a Vicenza, alla manifestazione di dicembre, il nostro spezzone era tra i più combattivi e di gran lunga superiore (anche numericamente, oltre che politicamente) a quelli di tante presunte organizzazioni "di massa", è anche perché in un anno abbiamo fatto dei passi avanti. La nostra costruzione, poi, è parte di quella, ben più grande, della Lega Internazionale dei Lavoratori che sta vivendo una stagione di crescita, con l'adesione e la fusione di nuove Sezioni e gruppi in tutto il mondo e un rafforzamento evidente anche in Europa.
Certo, ancora non basta e siamo ben lontani (noi lo ammettiamo) dalla costruzione di quello strumento di lotta con influenza di massa di cui oggi ci sarebbe bisogno: ma ci sentiamo di dire che la strada presa è quella giusta e invitiamo tanti altri compagni, che finora ci hanno solo osservato o hanno condiviso singole battaglie con noi, a unirsi a noi per rendere più forte il PdAC, embrione di quel partito comunista che noi non rinunciamo a costruire: proprio perché sappiamo che, senza, non ci sarà vittoria e non ci sarà conquista.
(11 gennaio 2008)
Note
(1) v. Liberazione del 10 gennaio 2008: "Bertinotti: 'Bolivia e Sud America ci dicono che il socialismo non basta più."
(2) per un'analisi dettagliata di questo tema rimandiamo all'informatissimo articolo di Valerio Torre pubblicato sul nostro sito web col titolo "Pdl e Pd: cambia una lettera".
(3) v. Liberazione del 4 dicembre 2007.
(4) Rosa Luxemburg, "Il caso Millerand" (1899). Alla grande rivoluzionaria dedicheremo più avanti, in quest'anno in cui cade il novantesimo anniversario della rivoluzione tedesca, un inserto speciale del giornale.
(5) per una analisi più dettagliata del percorso di Sinistra Critica si veda il nostro articolo "Opposizione di classe o sostegno critico al governo?" (Su Progetto Comunista, dicembre 2007).
(6) si veda Franco Crisecci: "Quei fantastici mille. Da Pitagora a Ferrando (passando per Garibaldi)" pubblicato sul nostro sito web.
(7) l'eterogeneità del partito si può constatare anche facendo un rapido giro sui siti dei gruppi locali del Pcl. Significativo (ma non eccezionale) questo esempio tratto dal sito di Savona (che è tra l'altro il gruppo del capo Ferrando), dove il portavoce locale, Giorgio Magni, scrive: "Noi consigliamo in ognuno dei casi di verificare quanto gli imprenditori possono garantire ai lavoratori su occupazione remunerazioni e sicurezza. Quanto investiranno e quante garanzie reali (roba da mettere in banca) daranno ai lavoratori e ai cittadini. Non vorremmo che alla fine della favola, intascati i quattrini gli imprenditori allargando le braccia ci dicessero: è andata male. Per usare la tua metafora la partita si può perdere o vincere, basta che non ci sia il trucco e l’arbitro non abbia dato troppi penality ai lavoratori e ai cittadini."
E altri testi simili ("cittadini", affidamento agli imprenditori e ad "arbitri" vari...), che non sfigurerebbero nei comunicati di una sezione dei Ds, si trovano a volontà.